giovedì 19 giugno 2008

Meno di una settimana al mio giorno.

Più un giorno alla mia decisione (che dopo tanti piagnistei è finalmente e serenamente arrivata).

Circa due mesi alla mia laurea (forse).

Circa 2 settimane al mio 25esimo compleanno.

Poco più di un mese al trasloco dal mio appartamento a chissà dove.

Meno di quattro mesi di permanenza in questa città.

Meno di quattro mesi per decidere cosa farò della mia vita.

Più di 10 anni di crolli e di unghie spezzate a grattar il fondo.

Dopo 10 anni ce l’ho fatta a capirci qualcosa.

Quindici minuti di esagerata fiducia in me stessa.

Ho bisogno di un cambio di rotta. E’ il momento propizio.

venerdì 13 giugno 2008

Stereotipiche diversità

Sebbene questo sia il periodo meno indicato per vivere la città e tutte le sue main streets (soprattutto se il tuo passo non è proprio rilassato, ma anzi è mosso da una fretta che affastella i mille impegni, incastrati nelle 12 ore di veglia, e le orde barbariche di turisti e ragazzini in gita ti intralciano il cammino), a volte mi capita di trovare particolarmente piacevole ed interessante osservare la varietà della specie umana e le diversità dei comportamenti dei suoi rappresentanti.
Croce e delizia di una città d’arte e pullulante di storia e tradizioni, il crogiolo razziale di cui si può godere nei mesi estivi qui a Siena è davvero cosa notevole.
Tutti i vicoli di questo ridente borgo toscano sono intasati di cinesi, giapponesi, americani, spagnoli, tedeschi, Inglesi e via dicendo, che organizzati in gruppi d’età differenti, pretendono in uno o due giorni di capirci qualcosa di Cecco Angiolieri, Pià de Tolomei, Enea Silvio Piccolomini, e riducono ad una goliardica corsa tra cavalli alla conquista del celebre cencio, quella pluricentennale tradizione che è il Palio. Probabilmente il mio è il tono sussiegoso di chi sa che la cultura italiana è superiore per lo meno a quella d’oltreoceano, e che quindi si gonfia e si impettisce di fronte a questa constatazione oggettiva dei fatti (ultimo appiglio per non far scivolare giù, nel fondo più profondo, il Bel Paese ormai alla deriva sociale, politica ed economica).
Ma, devo ammettere che, questo coacervo di razze, rende più animata e colorata una città che altrimenti sarebbe tinta solo di terra di siena (anche nell’etichettare il colore tipico dell’architettura questa città risulta autoreferenziale ).
Questo argomento fa riemergere ricordi lontanissimi, risalenti ai miei primi anni di scuola elementare, di cui però voglio servirmi per sostenere ciò di cui, di qui in seguito, andrò raccontandovi. Mi riferisco all’acquisto di un libro, dalla casa editrice improbabile, visto che si trattava di uno di quei volumetti che ti rifilano rappresentanti truffaldini, infilatisi nella scuola per tentare di vendere almeno 3-4 delle 20 copie che possiedono, dal nome “Gente”. Era un libro illustrato, con poche frasi didascaliche a corredo delle immagini, dalla copertina rigida in cartoncino, sgargiante di mille colori, che tentava di classificare la tipologia umana, sulla base delle diverse caratteristiche somatiche. Tripudio dello stereotipo, questo reperto archeologico, accuratamente incelofanato e conservato da mia mamma tra gli scaffali della libreria, sezione “A.- scuola elementare- italiano”, mi risulta particolarmente opportuno per differenziare questa massa altrimenti informe di turisti.
Eh si, sarò pure impedita, ma io ancora non riesco a distinguere cinesi e giapponesi, se non sulla base di “musi gialli” e “occhi a mandorla”, e forse sull’impressione che i secondi abbiano la faccia più larga (effetto schiacciata) dei primi; o che le donne cinesi, spesso e volentieri, abbiano l’aria sfatta delle casalinghe sfruttate e delle madri frustrate con circa 10 figli a carico…(non foss’altro perché nei pressi di casa mia c’è un china restaurant gestito da una famiglia di questo tipo...). Cmq, a parte certe peculiarità somatiche, il loro modo di riversarsi ed occupare le strade è pressappoco simile: gruppone di circa 20-30 persone, tutti in fila, mascherine (forse) anti-smog per gli ultra 50enni (come se loro provenissero tutti da chissà quali oasi esenti da ogni tipo di inquinamento…mah!) e abbigliamento stile manga per i teen-agers (in realtà è una categoria che si allunga sino ai trent’enni, che però, per qualche vigoria fisica inconsulta, mostrano la metà degli anni). E poi, l’atteggiamento giulivo e avventuroso con cui si aggirano per la città, quel sorriso paretico, che mostra quei denti che sembrano delle canne d’organo, e quella faccia da faina…come se fossero gli ultimi boyscout alla scoperta dei misteri del mondo… che in quei momenti in cui ti girano vorticosamente ti viene solo da dire “che ca..ridi?!”…
E poi ci sono gli Americani, su cui si potrebbe scrivere un’epopea del luogo comune, se non altro per vendicarsi della riduttiva e poco originale equazione con cui ci appiccicano cliché da sempre (italia = pizza; = spaghetti; = mandolino; e così via…). Proprio loro, che si riconoscono fra tutti…personalmente li riconosco anche dai piedi…così sproporzionati rispetto al resto…
E poi quello “starnazzare” tipico con cui apostrofano ogni loro aprir bocca (per il rispetto dei diritti d’autore, ci tengo a precisare che non sono io la creatrice di questa azzeccatissima espressione)... tono invariabile, a prescindere dal tasso di alcool che circola nel sangue.. anche se, a giudicare dalle infradito e dalla scollatura vertiginosa anche in pieno inverno, quest’ultimo dovrebbe essere piuttosto elevato! Anche perché, eccezion fatta per gli eschimesi, credo sia l’unico motivo con cui ti spieghi come mai non stramazzino al suolo assiderate, anzi congelate…
E ancora, come si può sopportare quella esaltazione, che con forza bruta e inspiegabilmente femminea , ti scaraventa contro un muro per scattarti una foto, mentre tu stai bevendo pacificamente del buon vinello nella tua contrada (di temporanea adozione, sia chiaro) in festa, e l’unica spiegazione alla tua faccia attonita e sperduta è la seguente: “Oh….you’re so pretty…typical italian girl!”….No…non si può accettare una barbarie simile…non dico che devi pagarmi, visto che mi stai usando tipo fenomeno da baraccone, ma almeno chiedimelo per favore…
E vabbè…ti ricomponi dicendoti che so americani…semplice formula che chiarisce ogni irriducibile interrogativo.
Sugli inglesi non c’è da dire molto, loro sono così composti, così “british”, sono cittadini del mondo, abituati a viaggiare. Camminano per la via così discretamente, che se non fossero biondini e con le lentiggini nemmeno li noteresti. Sono i tipi da museo, da mostre in anteprima, al massimo da ristorantino in Piazza del Campo alle 7 di sera.
E infine, degni di nota sono anche i tedeschi. Quelli si che si sono letti il manuale del perfetto turista. Cartina della città alla mano, pantaloncino sahariano e scarpette da ginnastica lui, vestitino in lino lei, scrutano i vicoli più anonimi della città con la stessa attenzione con cui ammirerebbero gli affreschi del Duomo.
Il problema sorge nel momento in cui, ti chiedono come raggiungere la fontana del cavallo da Fonte Branda….
A parte che a Siena io ignoro una fontana del cavallo, ma ammesso che una intuizione brillante ti fa pensare che possa essere dalle parti di porta Pispini, il problema serio è un altro… Ovviamente le informazioni gliele devi dare in inglese…
…Traduzione simultanea italiano-inglese… accento british-barese… balbettii vari…vabbè, stendiamo un velo pietoso!


Alla luce di questa estenuante rassegna dei “tipi umani”, non penserete mica che io abbia una visione limitata del reale??In fondo lo stereotipo è un semplice veicolo di conoscenza…d’altronde che v’aspettate da una che confonde ancora la destra dalla sinistra??? Colpa del mancinismo…

lunedì 9 giugno 2008

Mon cheveux!


So che ho già pubblicato il mio post quotidiano...ma non ho resistito di fronte a questa immagine...mi sto sganasciando dalle risate...Il Delfino di Francia c'est moi!!

Di domenica sera...


Un’ “illogica allegria”. Una sensazione indecifrabile, improvvisa e travolgente.
Il cielo si è rasserenato, le nubi lasciano campo libero a qualche sprazzo di azzurro, ormai opacizzato dalle luci della sera. Le gazze intonano le ultime note, stridule e rauche. Forse è la loro protesta contro un’estate che tarda ad arrivare.
Le ante della finestra spalancate, un forte odore di rosmarino entra in casa, e a parte Giorgio Gaber che canta, la città sembra assopita e silente.
Per la prima volta negli ultimi anni pensi a casa tua con bonaria nostalgia. A tua mamma, in pigiama che starà cenando con una frisa; a tuo padre, invecchiato di 10 anni, che con una torcia si fa luce nel viale e accudisce i suoi segugi. Ai tuoi fratelli, che in qualche modo staranno cercando di inventarsi una vita fuori casa.
Ed tu lì, adagiata su quel divano, che insegui le parole giuste, quelle che possano vestire meglio le tue emozioni, così volatili ed aleatorie.
Azzardi un resoconto dei tuoi ultimi anni…impossibile riuscirci. Tante cose in sospeso. Troppe ancora intentate.
Non poche le occasioni perse. Alcune le hai volutamente ignorate, altre le hai trascurate per indolenza. Altre ancora le hai annusate, sfiorate, ma ti sono scivolate via. Forse ci sono cose fatte apposta per essere intraviste e trovano motivo di esistere solo nel momento in cui si consumano. Se ne ha coscienza solo nel loro epilogo, a partita finita, quando ormai lo scacco è matto.
E non c’è ritorno, non c’è rivincita.
Hai avuto i riflessi troppo lenti. Forse è colpa della tua sordità a ciò che non sia convenzione, abitudine, al routinario andamento degli eventi. Sarebbe preferibile non capire, se la consapevolezza di ciò che ormai ti è sfuggito deve essere così tagliente. Sensi di colpa? Tanti, ma probabilmente inutili. Non hai voglia di accartocciarti nei rimorsi…quelli rendono incolore tutto ciò che resta. Perché qualcosa resta sempre.
Hai perso un treno, ma ne arriverà un altro sicuramente. E tu avrai imparato a guardare fuori dal finestrino. E a capire se scendere o aspettare una coincidenza.
Ti dispiace…ma ora devi svoltare, devi credere che quello che verrà sarà meglio di ciò che c’è già stato.
Un sospiro alleggerisce quella torbida sensazione di tristezza ed ansia che ti soffocava. Inaspettatamente forte, sicura e serena perché stasera ti senti bene. Citando Gaber: “…eh sto bene…io sto bene come quando uno sogna…na na na na na na…”

giovedì 5 giugno 2008

Sogni e ricordi...

Stanotte le ho sognate. Strano questo “incontro”. L’ultima volta che le ho viste è successo in maniera del tutto inaspettata, al cimitero, sotto Natale. Loro due sono sempre uguali, sempre in coppia, stessa acconciatura, stesso cappotto. Di panno nero, con i bottoni dorati quello di Giovanna; grigio, modello montgomery quello di Cenza. D’altronde, da quando vivo a Siena, ogni volta che ritorno nel paesello, quasi tutti gli incontri sono dettati dalla casualità. E’vero anche che allontanarsi da casa ti fa capire cos’è che hai apprezzato di più della tua vecchia vita, cos’è che resta e che vuoi tenerti stretta nell’angolo dei ricordi. E allora, anche il semplice gesto di salutarsi e abbracciarsi fugacemente per strada, assume tutto un altro valore se a farlo sono determinate persone, quelle che pur non vedendoti spesso, sanno praticamente tutto di te, perché sono il tuo passato, la tua infanzia, le tue emozioni più vere.
Ho riaperto gli occhi con il cuore gonfio di un affetto così genuino e sincero, che non ho resistito al desiderio di richiuderli per un attimo e lasciarmi andare ad un dolcissimo flash back che mi ha riportato indietro nel tempo, a più di 15 anni fa.
Sgattaiolavo fuori dal negozio di papà, e mi piaceva percorrere quella stradina saltellando un po’ di su di una gamba, un po’ sull’altra. D’estate, davanti alla porta c’era una tenda di rafia che, insieme all’odore del pane fresco e dei salumi, impregnava tutta la bottega. Era un ambiente minuscolo, quattro mura riempite di tutto ciò che una drogheria può contenere: spezie, generi alimentari, prodotti per la casa…e tutto incastrato in modo tale da non lasciare nemmeno un spazio vuoto. Un disordine piacevolissimo alla vista, perché dava la sensazione dell’abbondanza.
Il mio angolino preferito era quello della pasta, perché si creavano pile altissime in cui si alternavano i fusilli alle penne, gli spaghetti alle tagliatelle, i semi di melone alle stelline. E mi divertiva risistemare il tutto laddove mi sembrava non ci fosse armonia. E poi, ai piedi di queste colonne, c’erano dei sacchi pieni di legumi freschi e ci godevo quando vi immergevo la mano.
Al bancone non ci arrivavo, riuscivo solo a poggiarci le mani stendendo le braccia e sollevandomi sulle punte. Perciò un giorno decisi di impossessarmi dello sgabello di legno ripostovi alle spalle. E s’immagini la delusione che ho provato quando, all’età di 7 anni, ho scoperto che in realtà non era una mia esclusiva: un’altra bambina, dai capelli rossi, e la sua sorellina più piccola, riccia e mora, vi si accomodavano quando io non c’ero.
E anche per loro Giovanna preparava lo sfilatino con il galbanino e bevevano thè al limone.
E chiacchieravano con le “signorine” con la stessa spontaneità con cui lo facevo io.
E’ stata la prima volta che ho provato una timida gelosia che però, ben presto, ha lasciato il posto alla più importante amicizia che io abbia mai avuto.
Voglio condividere con voi questi ricordi, perché come me quella bottega non l’avete più vista. E sono sicura che come me, ogni volta che ci passate davanti e trovate una saracinesca logorata dal tempo che scorre inesorabile, vi sobbalza il cuore. E non potete fare a meno di ripensare a quei grembiuli colorati, alla carta che avvolgeva il pane ( ma che Giovanna utilizzava anche per farci le operazioni in colonna, con l’inchiostro blu), alla pedana in legno su cui ci piaceva tanto camminare, solo perché i nostri passi, ancora troppo leggeri, facevano un rumore cupo e pieno, che ci dava l’impressione di portare i tacchi.
....Chissà che suono farebbe ora quel piccolo soppalco, anche se, nonostante siano passati così tanti anni, i tacchi non li portiamo comunque....

mercoledì 4 giugno 2008

Thanks giving post

Eccomi qui, dopo qualche giorno di silenzio, provo a gettare giù qualche verso. Primo perchè c’è stato qualcuno che mi ha rimproverato di trascurare il mio blog, secondo perché scrivere per me è una via di fuga, un modo per sfogare tutte le ansie e le inquietudini, ahimè, peculiarità irreparabili del mio carattere. E questo è uno di quei periodi in cui Mikado è irrimediabilmente altalenante, preda fin troppo facile dei suoi stessi umori, al limite della schizofrenia. E quello che la fa sentire più impotente è che in questo turbinio di emozioni incontrollate risucchia anche chi non dovrebbe entrarci, chi con lei non dovrebbe spartire nulla, non in questo momento almeno.
Vorrei poter scrivere qualcosa di più divertente, di più leggero, e non le solite litanie che da un mese a questa parte affliggono le orecchie di chi, volente o nolente, è sempre pronto ad ascoltarmi. E state tranquilli, perché tanto vi risparmierò questa sofferenza.
Questo post non parlerà di me, ma lo dedico a chi, da sempre o da poco, mi è vicino. A chi ho sempre amato e a chi spero di poter amare.
A chi posso chiamare in qualsiasi momento, del giorno e della notte, perché tanto so che risponderà; a chi è sempre pronto a mettere da parte se stesso (e anche l’esamone di medicina interna), perché di me non vuole perdersi proprio nulla, soprattutto un pianto devastante di venerdì sera; a chi riesce sempre a farmi ridere e commuovere contemporaneamente, perché tutto quello che dice di me è talmente vero (tranne i nomignoli), che la migliore risposta alle sue dolcissime imputazioni sono un sorriso o un paio di occhi lucidi; a quel filo diretto Bari- Roma- Siena, che nonostante gli anni passino, non si è mai spezzato ed ho la sicurezza che mai succederà.
A chi, una sera, complice Bacco, si è fidato di me e da quel momento allieta le mie serate a suon di aperitivi e passeggiatine lungo il corso (che ne dici di cambiare il disco????).
A chi, è sempre pronto a mettere tavola e a sorbirsi le mie insoddisfazioni, nonostante un’estenuante giornata di lavoro (a Lourdes devi andarci comunque).
A chi, nonostante le incomprensioni e le mancanze, è sempre lì, in quel di Sperandie ad aspettarmi per cena.
A chi, a prima mattina, con gli occhi ancora socchiusi e le fette biscottate inzuppate nel latte, si sforza di seguire il resoconto della mia serata precedente.
A chi riesce sempre a farmi sentire la benvenuta (o dovrei dire la bentornata???) non appena varco la porta di Fontebranda.
A chi riesce a non farmi sentire sola, perché ho una fottuta paura di tutto quello che verrà, e non ho vergogna ad ammetterlo. Grazie di cuore.